La millenaria storia di Manduria è una storia di una popolazione prevalentemente contadina; nonostante la presenza del mare e delle sue variegate risorse ittiche, il lavoro e la fatica dell’uomo sono stati riservati all’impegnativa lavorazione della terra e dei suoi prodotti, in primis il vino. Una società questa più contadina che marinara, che, gelosa delle sue tradizioni ha difeso accanitamente l’invadenza della cultura, borghese e commerciale, della vicina società urbana tarantina. Tale tipologia di società si rispecchia nella cucina “povera”, della quale, una costante ricorrente era l’estrema semplicità dell’arredamento e degli utensili.
La campagna fornisce in gran quantità grano, uva, olive e pomodori, che costituiscono di conseguenza i pilastri dell’alimentazione locale. E’ oggi senza dubbio motivo di orgoglio, la consapevolezza, che le risorse enogastronomiche locali si identificano quasi integralmente con quelle proposte dai nutrizionisti più accorti nella “dieta mediterranea”. I popoli mediterranei infatti, gestendo oculatamente le risorse ambientali disponibili, erano soliti cibarsi delle tante erbe spontanee e coltivate, aromatiche e non, di cereali, di legumi, di olio d’oliva, di latticini, di pesci più che di grassi animali e di carne rossa; alimenti questi, che caratterizzano da sempre la cucina manduriana. Così quella che era definita fino a non molto tempo fa “cucina povera per necessita” è ora diventata “cucina povera per attualità” e sopratutto per convenienza dietetica e salutare. Tra i piatti tradizionali vi sono: “li fai e foje”, un purè di fave, cotte in una pignata al fuoco del camino, con contorno di verdure selvatiche, lesse e condite con un filo di olio. Il purè di fave tradizionalmente, si abbinava a ciò che la campagna offriva nelle diverse stagioni: cime di rape, peperoni, cardi, uva nera, olive ecc. Tra le paste alimentari preparate in casa, occupano una posizione di rilievo “li pizzarieddi”, che si ricavano da pezzi di pasta fatti rotolare sullo spianatoio, poggiandovi sopra un ferretto quadrangolare detto “frizzulu” e la “làjana”, pasta fresca, spianata col mattarello e tagliata in piccoli quadratini.
C’è poi “la frisedda” che rappresenta il capolavoro di un popolo abituato alle belle mangiate, così come ai lunghi digiuni: si tratta di una ciambella fatta di farina di grano duro, che appena cotta in forno, viene tagliata in due con un sottile spago in senso orizzontale; successivamente viene reinfornata per essere tostata. La tostatura faceva si che si potessero conservare per diversi mesi in vasi di terracotta e utilizzate poi all’occasione. Per gustare le frise o friselle, occorre immergerle in acqua fredda e quando sono ben inzuppate, condirle con sale, olio, pomodoro e origano.
In estate si fa largo uso di ortaggi, tra cui melanzane e zucchine, ripiene e cotte al forno.
Notevole è pure la produzione casearia che ha caratteristiche comuni a quelle di altre regioni meridionali. Di gusto intenso è il formaggio pecorino, leggermente piccante che accompagna molto bene sia il vino che la bruschetta. Largamente usata è la ricotta fresca con i suoi derivati, tra i quali la ricotta forte, inacidita da successive manipolazioni, il cacioricotta salato, da condimento, e le “pampanelle” (formaggio molle ricavato dalla panna del latte e conservato tra le foglie di fico).
Vi è poi tutta una tradizione gastronomica, sopratutto dolciaria, legata al periodo delle feste religiose. Tipici nel periodo natalizio “li pettuli” e “li purcidduzi”, rispettivamente frittelle di forma rotondeggiante e piccoli pezzettini di pasta fritta guarniti con miele o vincotto.
“Li Scarceddi”, panetti dolci o salati a forma di canestrino, contenenti al centro uno o più uova sode e cotte al forno, sono infine il tipico dolce pasquale.